I criteri di scelta nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo per esubero di personale. La risposta nella sentenza della Corte di Cassazione n. 31490 del 05 dicembre 2018.

“La scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede. Tali criteri devono improntare i meccanismi di comparazione delle posizioni di dipendenti che svolgono mansioni fungibili, anche in relazione al loro livello di anzianità di servizio ed ai loro carichi familiari” Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 32490 del 05.12.2018

Il commento – Dott. Marco Miani

Accade sempre più spesso, soprattutto in questi anni caratterizzati da una forte crisi economica che purtroppo sembra non avere fine, che uno o più lavoratori vengano convocati dalla direzione del personale della azienda presso la quale lavorano e venga loro comunicato il tanto temuto licenziamento per esubero di personale.

A questo punto, il lavoratore a cui viene comunicata tale notizia, certamente poco piacevole, superato lo shock iniziale, comincia ad interrogarsi, chiedendosi (molto spesso senza risposta) perché la scelta sia ricaduta proprio su di lui e non ad esempio sul suo collega di ufficio o di reparto che, guarda caso, svolge la sua stessa identica mansione/funzione; detto altrimenti, il lavoratore estromesso si chiede: nella fattispecie di licenziamento per esubero di personale esistono dei criteri di scelta predeterminati dalla legge che l’imprenditore deve seguire oppure tutto è rimesso al mero arbitrio del datore di lavoro? A tale domanda ha risposto in maniera possiamo definire pressoché definitiva la Corte di Cassazione con sentenza n. 21438 del 30 agosto 2018, recependo e confermando un consolidato orientamento giurisprudenziale maturato negli anni precedenti. Tuttavia, prima di passare a dissertare su quanto statuito dalla predetta sentenza, crediamo opportuno chiarire brevemente cosa si intenda per licenziamento per esubero di personale e per soppressione del posto di lavoro, ovvero in termini generali di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

COSA SI INTENDE PER LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO? QUALI SONO I PRESUPPOSTI CHE LO LEGITTIMANO?

L’art. 3 della Legge n. 604/1966 identifica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (di seguito, in breve licenziamento per g.m.o.) come quella forma di licenziamento dovuto a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Da quanto sopra espresso emerge la seguente prima considerazione: l’azienda non deve versare per forza in una situazione di crisi affinché si possa procedere ad un licenziamento per g.m.o. All’uopo, significative sono le parole usate dalla Cassazione nella sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 “Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.
Alla luce di quanto sopra, l’imprenditore può semplicemente e del tutto legittimamente decidere di esternalizzare un servizio che sino a ieri era stato svolto da personale interno; può altresì altrettanto semplicemente e del tutto legittimamente decidere di incrementare i profitti della propria azienda, rinunciando e quindi sopprimendo talune mansioni/funzioni aziendali, che gravavano in maniera pesante sul bilancio aziendale alla voce “costi del personale.
Tutto ciò ci porta diritto alla seconda considerazione: il datore di lavoro è pienamente libero di decidere l’assetto organizzativo della propria azienda e di mutarlo, se lo ritiene opportuno, sopprimendo talune mansioni o espungendo dal contesto aziendale lavoratori in esubero. La tutela dell’iniziativa imprenditoriale assume rango costituzionale: l’art. 41 comma 1 Cost. infatti sancisce che “L’iniziativa economica privata è libera. L’unico limite è rappresentato dal fatto che “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, comma 2, Cost.). Di fronte ad un licenziamento per g.m.o. la Corte di Cassazione ha costantemente affermato la piena libertà e correlativa legittimità delle decisioni aziendali, a patto che il supposto riassetto aziendale sia realmente sussistente e non fittizio (ex multis, Cass. 19 aprile 2017, n. 9869) e che il datore di lavoro abbia adempiuto al tentativo di mantenere il lavoratore in azienda riallocandolo ad altra mansione/funzione, ovvero abbia compiuto il tentativo di ripescaggio (repechage) (ex multis, Cass. 22 marzo 2016, n. 5592) con esiti evidentemente infruttuosi. Terza considerazione da tenere in debita considerazione: per rientrare nella disciplina del licenziamento per g.m.o., se l’azienda ha più di 15 dipendenti, occorre che i licenziamenti intimati non superino il numero di 5 nell’arco temporale di 120 giorni. In caso contrario, si rientra nell’alveo giuridico dei licenziamenti collettivi, disciplinati dalla Legge. n. 223/1991, che prevede una procedura differente. Se l’azienda non supera invece il requisito dimensionale suesposto, troverà sempre applicazione la disciplina del licenziamento per g.m.o. indipendentemente dal numero di licenziamenti intimati.

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO. QUALI SONO DUNQUE I LIMITI?

1. PER SOPPRESSIONE DELLA MANSIONE/FUNZIONE AZIENDALE.

Va bene, ma ora viene lecito chiedersi: ci sono dei limiti che l’azienda deve rispettare, pena, in caso di mancata osservanza dei medesimi, la declaratoria di illegittimità del il licenziamento? In caso di licenziamento per g.m.o. dovuto a soppressione della mansione/funzione aziendale svolta dal lavoratore estromesso, l’azienda incontra sostanzialmente tre vincoli da osservare: la ragione posta a fondamento del licenziamento deve essere effettivamente sussistente (ad esempio è di tutta evidenza che non si possa legittimamente licenziare un lavoratore per soppressione della mansione/funzione da questi svolta e il giorno seguente assumere un nuovo dipendente con gli stessi compiti del lavoratore licenziato); occorre aver adempiuto al tentativo di ripescaggio (repechage) del lavoratore in altra mansione/funzione; il licenziamento per g.m.o. non deve mascherare un licenziamento del lavoratore per motivi discriminatori.

2. PER ESUBERO DI PERSONALE. LAVORATORI FUNGIBILI. L’ULTERIORE LIMITE DEL CRITERIO DI SCELTA.

Ma che succede se ci troviamo di fronte ad un licenziamento di uno o più lavoratori per g.m.o. dovuto ad una riorganizzazione dell’attività aziendale che prevede un ridimensionamento della stessa e che riguarda appunto una pluralità di lavoratori tra loro fungibili, ovvero che svolgono mansioni/funzioni che si equivalgono e sono omogenee dal punto di vista professionale? Qui torniamo al punto di partenza, ovvero all’interrogativo del lavoratore licenziato che si chiede: perché io e non il mio collega che svolge la mia stessa mansione? A tal riguardo, precisiamo sin da subito che la Corte di Cassazione ha costantemente affermato il seguente principio: la scelta del lavoratore da licenziare non può essere frutto del libero arbitrio aziendale (ex multis, Cass. 21 dicembre 2016, n. 26467). Pertanto, i vincoli di cui al licenziamento per g.m.o. dovuto a soppressione della mansione (non pretestuosità del licenziamento, impossibilità ad adibire il lavoratore ad altra mansione/funzione aziendale, insussistenza di ragioni discriminatorie sottese al licenziamento) permangono anche in caso di licenziamento per g.m.o. a seguito di esubero di personale fungibile, cui si aggiunge in quest’ultimo caso l’obbligo per il datore di lavoro di osservare predeterminati criteri nella scelta del lavoratore da licenziare. Quali sono dunque questi criteri?

IL PRINCIPIO DI BUONA FEDE E DI CORRETTEZZA

La stella cometa che deve guidare l’imprenditore in tale scelta è rappresentata dall’osservanza delle regole di buona fede e correttezza ex art. 1175 cod. civ. (ex multis, Cass. 8 luglio 2016, n. 14021). Bene, ma in definitiva, l’osservanza di tale principio in quale criterio di scelta concretamente applicabile si traduce?

MUTUABILITA’ DEI CRITERI DI SCELTA PREVISTI PER I LICENZIAMENTI COLLETTIVI EX ART. 5 LEGGE 223/1991 AI LICENZIAMENTI PER G.M.O.

Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, i criteri di scelta previsti dall’art. 5 della Legge n. 223/1991 in tema di licenziamenti collettivi assurgono a criterio generale e standard di conformità ai principi di buona fede e correttezza, non dovendosi escludere tuttavia l’utilizzabilità di criteri differenti, i quali devono essere comunque “non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati” (Cass. 30 agosto 2018 n. 21438). E qui ci riallacciamo quindi alla sentenza della Corte di Cassazione n. 31490 del 05 dicembre 2018, richiamata nell’incipit del presente lavoro, ove la Corte ha infatti statuito ancora una volta che è fatto obbligo all’azienda che intende procedere ad un licenziamento per g.m.o. dovuto ad esubero di personale (nel caso sottoposto all’esame della Corte dovuto al venir meno di un appalto) di raffrontare e valutare le posizioni dei lavoratori che svolgono funzioni omogenee e fungibili avuto riguardo ai criteri dell’anzianità di servizio e dei carichi familiari. Pertanto, per l’ennesima volta, nel caso di licenziamento per g.m.o. dovuto a esubero di personale fungibile, la Corte delinea l’indirizzo giurisprudenziale volto a individuare i lavoratori da licenziare attraverso le regole di correttezza e buona fede ex art. 1175 e art. 1375 cod. civ. In tale contesto, mutuare i criteri di scelta che la legge ha previsto in tema di licenziamenti collettivi, quali i carichi familiari e l’anzianità, anche nel caso di licenziamento per g.m.o. assicura in capo al datore di lavoro il rispetto di tali principi. Non v’è chi non veda come l’osservanza dei criteri di scelta previsti dalla Legge n. 223/1991 in tema di licenziamenti collettivi applicabili anche nel caso di licenziamento per g.m.o. assicuri un ideale ponte di collegamento tra due istituti normati da due leggi diverse.

SONO AMMISSIBILI ALTRI CRITERI DI SCELTA?

La sentenza della Corte di Cassazione n. 21438 del 30 agosto 2018 non ha escluso, nel rispetto del principio di buona fede e correttezza, l’utilizzo da parte del datore di lavoro di differenti criteri di scelta rispetto a quelli riconosciuti come standard dell’anzianità e dei carichi familiari. L’unico limite da rispettare, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, per la Corte è rappresentato dalla circostanza che gli eventuali criteri di scelta alternativi debbano essere “non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati”. Con sentenza n. 25192 del 7 dicembre 2016, la Cassazione aveva già peraltro considerato ragionevoli i criteri del maggiore costo della retribuzione, del minore rendimento lavorativo e delle condizioni economiche complessive di ciascun lavoratore, affermando che “tali criteri si prestano, ciascuno di essi ed anche in concorso tra loro, alla elaborazione di una graduatoria e dunque consentono, su basi oggettive, una comparazione tra tutti i lavoratori interessati alla riduzione dell’organico in quanto assegnati a posizioni di lavoro fungibili”.

VIOLAZIONE DEI CRITERI DI SCELTA NEL LICENZIAMENTO PER G.M.O. QUALE TUTELA PER IL LAVORATORE?

DALLO STATUTO DEI LAVORATORI ALLA LEGGE FORNERO

La Legge Fornero (Legge n. 92/2012) si è posta come spartiacque in tema di tutela del lavoratore licenziato a seguito di un licenziamento per g.m.o. dichiarato illegittimo in imprese rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori. Infatti, prima dell’entrata in vigore della legge predetta, la violazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare nelle imprese in regime di art. 18 Statuto dei Lavoratori prevedeva come tutela per i lavoratori estromessi la reintegrazione del posto di lavoro. Successivamente all’entrata in vigore della legge n. 92/2012, in caso di licenziamento per g.m.o. dichiarato illegittimo, al lavoratore è stata riconosciuta la sola tutela indennitaria da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità, da parametrarsi sull’ultima retribuzione globale di fatto.
Nelle imprese non rientranti nel requisito dimensionale ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in caso di illegittimità del licenziamento per g.m.o. veniva confermata la sola tutela indennitaria da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità.

DALLA LEGGE FORNERO AL JOB ACTS

IL D. Lgs. n. 23/2015 ha previsto che nei rapporti di lavoro instaurati dopo il 07 marzo 2015, in caso di illegittimità del licenziamento per g.m.o. è prevista la tutela indennitaria pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del t.f.r. per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 mensilità e non superiore a 24 mensilità (art. 3, comma 1, D. Lgs. n. 23/2015). Nelle imprese non rientranti nell’alveo di applicazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in caso di illegittimità del licenziamento per g.m.o. veniva prevista una indennità risarcitoria pari ad 1 mensilità per ogni anno di servizio, da un minimo di 2 ad un massimo di 6 mensilità.

DAL JOB ACTS AL DECRETO DIGNITA’

Come è noto, il 14 luglio 2018 sono entrate in vigore le norme del decreto legge n. 87/2018, il cosiddetto Decreto Dignità che, convertito con modificazioni nella Legge n. 96/2018, ha posto in essere tutta una serie di novità in materia di tutela dei lavoratori. Il testo di legge ha posto l’attenzione, oltre che agli istituti in materia di contratti a termine e contratti di somministrazione, anche sull’impianto sanzionatorio e sulla indennità risarcitoria dei licenziamenti illegittimi, evidentemente ritenendo insufficiente la misura della tutela indennitaria prevista dal Job Acts. Ebbene, il legislatore ha previsto in caso di licenziamento illegittimo l’innalzamento dell’importo minimo del risarcimento che è passato da 4 a 6 mensilità e, correlativamente, ha elevato l’importo massimo indennizzabile, passato da 24 a 36 mensilità. Il nuovo regime trova applicazione a tutti i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore del Decreto Dignità e dichiarati illegittimi per insussistenza degli estremi della giusta causa, del giustificato motivo soggettivo e, avuto riguardo alla parte che qui ci interessa, anche del giustificato motivo oggettivo. Le norme del Job Acts continuano a trovare applicazione per tutti gli altri licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore del Decreto Dignità, anche in assenza di una sentenza passata in giudicato.
Per le piccole imprese fino a 15 dipendenti il Decreto Dignità ha provveduto ad innalzare il tetto minimo, passato dal minimo di 2 a 3 mensilità, mentre non ha operato alcun correlativo innalzamento del tetto massimo, rimasto fermo pertanto a 6 mensilità.

.. LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 194/2018…FORSE UN PRIMO COLPO ALLA VISIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO DEL JOB ACTS?

Con sentenza n. 194 del 2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3 comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui prevede che l’indennizzo, in caso di licenziamento illegittimo, debba essere legato unicamente alla anzianità di servizio. La Consulta ha statuito che l’utilizzo dell’unico parametro dell’anzianità di servizio non possa essere ritenuto sufficiente per fornire una sufficiente tutela satisfattiva del danno cagionato al lavoratore dal licenziamento dichiarato illegittimo e non costituisca altresì un valido elemento deterrente in grado di far desistere l’impresa dall’effettuare licenziamenti illegittimi. All’attento lettore non sfuggirà la circostanza che la “scure” della Consulta si sia abbattuta, per estensione analogica aggiungiamo noi, anche sul Decreto Dignità, in quanto quest’ultimo ha sì ampliato la misura dell’indennità risarcitoria prevista dal Job Acts in caso di licenziamento illegittimo, portando, come abbiamo visto, il minimo da 4 a 6 mensilità e il massimo da 24 a 36 mensilità, ma ha tenuto fermo quale unico parametro di riferimento quello dell’anzianità di servizio, nulla innovando in tal senso rispetto alla previgente normativa. Cosa accadrà ora?

PER CONCLUDERE LA GIURISPRUDENZA DI MERITO OFFRE

UNA PRIMA INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA DELL’ART. 3 COMMA 1 DEL D.LGS. N. 23/2015 ANCORA PRIMA DEL DEPOSITO DELLE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA N. 194/2018 DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE.

La Corte Costituzionale non aveva ancora depositato le motivazioni della sentenza con cui aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015 e il Tribunale di Bari, con sentenza n. 43328 del 11 ottobre 2018, si rendeva protagonista di una interpretazione in maniera costituzionalmente orientata della norma dichiarata incostituzionale. Il caso riguardava un licenziamento collettivo, impugnato da un lavoratore, con una anzianità lavorativa di poco superiore all’anno e mezzo, per supposti vizi procedurali. Il Tribunale accoglieva le doglianze del lavoratore licenziato, dichiarando illegittimo il licenziamento e conseguentemente condannava l’impresa a corrispondere al lavoratore 12 mensilità anziché il minore indennizzo previsto dalla legge (che sarebbe stato pari a 4 mensilità). Il Tribunale giustificava le predette 12 mensilità per “la considerevole gravità della violazione procedurale […]; tale profilo, concernente il comportamento tenuto dall’azienda, deve essere contemperato con le ridotte dimensioni dell’attività economica e il basso numero di lavoratori occupati, unitamente alla scarsa anzianità del ricorrente”. Il Giudice dunque quantificava il quantum dovuto a titolo di indennità risarcitoria traendo spunto da quanto previsto dall’art. 18 comma 5 della Legge n. 300/1970, che prevede la quantificazione delle mensilità “in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”. La sentenza del giudice di merito, che acquisiva ancora più importanza perché emanata in un momento antecedente alla pubblicazione delle motivazioni della Corte Costituzionale, si poneva dunque come primo esempio di una giurisprudenza chiamata a confrontarsi con i principi affermati dalla Consulta, che ha stabilito con forza il seguente principio: il pregiudizio cagionato dal licenziamento illegittimo al lavoratore dipende da una pluralità di fattori che vanno ben oltre la anzianità di lavoro, che rimane certamente un fattore rilevante, ma non più esclusivo.

E UNA SECONDA PRONUNCIA DI MERITO SUCCESSIVA AL DEPOSITO DELLE MOTIVAZIONI DA PARTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE DELLA SENTENZA N. 194/2018.

In tale scia interpretativa, successivamente al deposito in data 08 novembre 2018 delle motivazioni della sentenza n. 194/2018 con cui la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art 3 comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015, corre l’obbligo di segnalare infine la sentenza del Tribunale di Genova n. 1550 del 21 novembre 2018, con cui il Giudice ha riconosciuto alla lavoratrice illegittimamente licenziata l’indennità nella sua misura massima, prendendo come parametro di riferimento la sua elevata capacità professionale, indipendentemente dalla sua anzianità di servizio.
Il Tribunale, in particolare, dopo aver premesso che la Corte Costituzionale nella sua sentenza n. 194/2018 aveva “censurato questo meccanismo poiché, parametrato alla sola anzianità di servizio, non garantisce un risarcimento adeguato al danno effettivo subito dal lavoratore ingiustificatamente licenziato e sufficientemente dissuasivo nei confronti del datore di lavoro autore d’un illecito” e aveva conseguentemente “rimesso al giudice la determinazione dell’indennità risarcitoria spettante tenendo conto, nel rispetto dei limiti edittali previsti dalla norma, non solo dell’anzianità, ma anche di altri criteri, quali quelli dettati dall’art. 8 l.604/66 o dall’art. 18, quinto comma, l. 300/70”, ha ritenuto di accordare alla lavoratrice l’indennizzo nella misura massima prevista dalla legge (nel caso di specie pari a 6 mensilità), in quanto dall’esame della fattispecie erano emersi significativi parametri di riferimento che andavano ben oltre l’anzianità di servizio ed erano meritevoli di essere presi in considerazione, ovvero “l’apporto professionale richiesto alla ricorrente, le gravi violazioni che hanno accompagnato il recesso, le ombre gravanti sulla scissione aziendale seguita in dieci mesi dalla decisione di licenziarla”.